California

Accidenti che viaggio! Siamo a NYJFK e attendiamo il volo per Los Angeles.

Little ItalySiamo partiti da Milano con 3 h di ritardo per maltempo su NY. L’attesa ovviamente è stata noiosa, ma le 8 h di volo su American Airlines: sedili stretti, tanto rumore e pasti scarsi e di scadentissima qualità! Altra lamentela: il servizio a terra. Infatti ci era stato promesso che all’arrivo, visto il ritardo, saremmo stati assistiti per le coincidenze. Balle! Ce la siamo cavata perché abbiamo un po’ di esperienza, altrimenti saremmo ancora a cercare di consegnare le valigie al banco dei transiti.
Il volo per LA comunque è in ritardo di un’ora, quindi riusciamo a prenderlo. Adesso siamo sul volo per LA. Da noi sono le 2.30 (sono in piedi dalle 5.30) e qui sono le 17.30.
A bordo fa un freddo polare. Il viaggio è stato molto lungo e disagevole perché i posti erano ancora più stretti e scomodi del primo aereo. E non ci hanno dato nulla da mangiare. Abbiamo potuto comprare solo panini.
Usciti dall’aeroporto prendiamo un bus  (shuttle) che ci porta al deposito dove abbiamo prenotato l’auto. L’impiegata al banco cerca di venderci qualcosa, ma abbiamo già pagato tutto il pensabile,  compreso il pieno. Tenta  un’ultima volta e ci propone un’auto più recente pagando una piccola cifra in più. No thank you. Quando usciamo nel parcheggio per scegliere l’auto vediamo che sono tutte nuovissime. Prendiamo una PT Cruiser grigia metallizzata.
L’hotel è vicino all’aeroporto. Squallido al punto giusto, però pulito e ha tutto ciò che serve. Ci vuole una doccia e poi a dormire. Prima esco dall’albergo per fumare una sigaretta e girato l’angolo trovo uno di quei negozi che stanno aperti anche di  notte, dove vendono un po’ di tutto. Anche un caffè caldo. Prendo dei biscotti e dell’acqua. Mi metto in coda alla cassa con persone di etnie molto diverse fra loro. Sono a mio agio, dovrebbe essere sempre così. Alla cassa ci sono due sudamericani. Qualcuno esce dal negozio con la bottiglia nel sacchetto. Un taxista indiano dell’India si siede in auto a sorseggiare il caffè. Un ragazzo e una ragazza, credo tedeschi, parlano e ridono allontanandosi lungo il marciapiede. Sgranocchio un biscotto mentre guardo le auto che passano sul boulevard dell’aeroporto. Ritorno all’aria condizionata dell’albergo e vedo che alcuni ragazzi stanno sguazzando nella piscina poco più grande di una vasca. Il caldo è appiccicoso
Alle 5 ora locale siamo svegli. Si fanno sentire i morsi della fame. Bisogna aspettare le 6:30 per fare colazione nel ristorante annesso all’hotel, gestito da cinesi. Attesa davanti alla porta con famigliola francese. Il breakfast è surreale. Nella sala arrivano altri reduci da voli intercontinentali, si muovono come zombie. Il giovane gestore, premuroso e sorridente, si mette a mangiare in un angolo della sala. Non vedo cos’ha nel piatto, ma mangia con appetito. Poi, comincia a tossicchiare e tirarsi la pelle della gola come se avesse inghiottito una spina di pesce. Prende il piatto ancora colmo e lo rovescia in un bidone della spazzatura.

La JollaPartiamo per San Diego. L’auto è carina e confortevole. Decidiamo di cercare la strada che segue l’oceano e la troviamo. E’ la Pacific Coast Highway, da cui finalmente possiamo vedere l’oceano. Ci fermiamo a Redondo beach. A quell’ora sulla spiaggia ci sono i più mattinieri che camminano o corrono. Qualcuno mi saluta mentre mi stiracchio osservando l’orizzonte. Si vede l’umidità nell’aria e c’è un po’ di vento freddo. Ma al sole si sta bene.
>Decidiamo di proseguire rapidamente e tagliamo fuori il promontorio di Palos Verdes e San Pedro. L’Ocean blvd attraversa i porti commerciali di Los Angeles e di Long Beach per ricongiungersi poi con l’oceano a Seal Beach.
I due porti sono tra i più grandi del mondo e stanno uno accanto all’altro. (li vedremo ancora al ritorno, attraversando la  zona commerciale e indutriale, ma con un percorso diverso che mi ha fatto percepire quanto sia vasta.). Dai loro moli passa il 25% dei container, oltre a materie prime e petrolio. E’ qualcosa di imponente e mi piacerebbe visitarli.

Niente di bello sino all’Orange County. Da Seal Beach inizia una spiaggia di sabbia che arriva sino a Newport Beach.  E’ una spiaggia senza strutture: solo le guardiole su palafitte  della sorveglianza. Niente bar o stabilimenti balneari.  E’ un mare per salutisti che non stanno mai fermi: surf con la muta, corsa, bici, palla-volo, pattini abbinati a carrozzella con bambino (modello da corsa).
Nessuno che prenda il sole. Nessun contemplativo. Le località marine sono gradevoli, ma sempre sferzate dal vento. Ogni tanto lunghi pontili si lanciano verso l’oceano, e In lontananza  si vedono le piattaforme petrolifere. Da Huntington beach ci allontaniamo dalla costa e prendiamo la FRW per San Diego. Abbiamo tagliato alcune delle località più belle e turistiche che vedremo al ritorno (Laguna beach). Abbiamo fretta di arrivare a San Diego nel timore di non trovare un albergo.

Ripercorrendo il viaggio con le mappe di Google ho trovato l’immagine dal satellite di un aereo che passa sulla spiaggia di Huntington Beach, vicino al luogo dove ci siamo fermati.
Il traffico aumenta visibilmente e ci rendiamo conto che è venerdì. Dopo San Onofre le montagne stringono la costa e l’autostrada torna a costeggiare l’oceano. Si attraversa il territorio della base, forse la più grande, del corpo dei Marine (tra Las Flores e Oceanside).  La strada costeggia una vasta zona disabitata  a ridosso dell’oceano dove si vedono soldati di guardia ai posti di blocco e navi militari vicino alla costa.

La California è storicamente la testa di ponte verso l’Asia anche dal punto di vista strategico militare, e qui, tra San Francisco e San Diego, si concentrano molti interessi economici e logistici legati alla macchina bellica: in tutti i settori, dal commercio alla ricerca scientifica, dalla produzione elettronica all’informatica; e mi verrebbe da pensare anche in quello agricolo, perché  ho notato grandi vigneti a pianta bassa accanto alle zone delle esercitazioni militari.

Arrivando a San Diego la prima sosta è a La Jolla, ridente località  che occupa il promontorio a nord della città. Ci fermiamo nella zona più turistica, con alberghi e ristoranti, e mangiamo guardando l’oceano. In basso c’è un piccolo parco in cui qualcuno prende il sole e qualcuno fa le foto del matrimonio. La costa  è fatta di tante piccole insenature, con sabbia e rocce. Una in particolare è affolata di bagnanti, forse per il fondale marino. Per noi c’è troppo vento, ma il sole è caldo e mi tolgo la giacca. Lo scenario è gradevole.

Sembra che gli alberghi siano tutti pieni, pare per un congresso. Ci affidiamo a un call-center, per finire così in un motel vicino alla FRW, in una zona poco distante dalla “vecchia” missione. Il posto è squallido e rumoroso, ma pulito. Col senno di poi avremmo potuto trovare di meglio.

Approfittiamo delle ultime ore di luce per andare sull’isola dove c’è il mitico hotel Coronado. Stupendo il ponte che si attraversa, costruito a forma di boomerang, da cui si vede anche il profilo dei grattacieli di downtown. La spiaggia antistante l’hotel è molto bella: profonda, di sabbia bianca. L’hotel, grande e scenografico, si affaccia alla spiaggia con ristoranti e bar all’aperto. L’aria è un po’ fredda e il tramonto non si vede perché siamo all’interno della baia.

Per la cena andiamo a downtown – molto animata di giovani che si divertono e altri che lavorano trasportando i turisti con i risciò/taxi, – in un ristorante italiano. I piatti sono dell cucina italiana (almeno i nomi) ma americanizzati. Aglio e pepe dovunque a cui i buongustai aggiungono ketchup e tutto ciò che è disponibile sul tavolo. Aria condizionata a palla. Il ristorante è fatto di tante piccole sale arredate in legno, sulle pareti centinaia di foto dell’italia anni cinquanta, oltre a cuscini con santi e papi: un repertorio che da noi è difficile trovare, per cui dopo cena giriamo tutte le sale come fossero quelle di un museo, con il personale che ci indica l’uscita con cortese sollecitudine.

E’ troppo presto per fare colazione nel motel. Con l’auto ci spostiamo alla vicina old-town: deserto e tutto chiuso, niente di interessante. Poco lontano dalla stazione locale, al centro di un parcheggio, c’è una di quelle tavole-calde dove puoi fare un vero breakfast. I tavoli sono tutti occupati e la fila di persone che aspettano mi fa pensare che tutti i mattinieri della zona si sono concentrati qui. Non vedo turisti, ma sono tutti di passaggio perché qui attorno non ci sono case e abitazioni. Bisogna scrivere il proprio nome in un elenco alla cassa e aspettare di essere chiamati. Osservo i piatti che la cameriera porta ai tavoli: una vera colazione americana, con tutte le varianti che si possono immaginare. L’odore del caffè si mescola con quello delle salsicce, il colore scialbo delle uova strapazzate con i colori vivaci della frutta.Posto suggestivo, ma il mio stomaco la pensa in altro modo e soprattutto non ha ancora capito che ora è.

LifeguardCi rimettiamo in auto, direzione La Jolla, ma senza avere un’idea e senza navigatore finiamo nel tratto di costa a nord, dove c’è l’università. Incrociamo un gruppone di ragazze e ragazzi che fanno jogging. Imbocchiamo pure noi la strada che porta verso l’oceano. Dall’alto delle rocce si vede una spiaggia di sabbia sterminata. C’è qualcuno che cammina, ma è poco più grande di una formica. Incontriamo i primi surfisti che scendono per i sentieri erosi dalle piogge e dalle frane dopo aver indossato la muta, e con la tavola in spalla. Il surf qui è una vera passione, molto diffusa tra i giovani (prevalenza uomini). Facciamo colazione in un piccolo (nella dimensione americana) bar del centro commerciale da cui esce un buonissimo odore di caffè. Finalmente! Anche se lungo ha un buon sapore. Seduti ai tavolini davanti al bar ci sono alcuni anziani che chiacchierano. Poco lontano altri tre parlano una lingua che non riconosco. Mi avvicino e chiedo da accendere. Niente. Me ne andrò con la curiosità irrisolta.

Non ci dispiacerebbe passare la giornata al mare, e pensiamo che il Coronado hotel abbia una spiaggia più riparata dal vento, essendo sull’isola. Ma il tempo si fa nuvoloso e ci limitiamo a una passeggiata lungo la bellissima spiaggia.
Pranziamo su una delle terrazze davanti al Coronado. Non è molto diverso da un fast-food: paghi e aspetti che ti diano un vassoio. Per le bibite ti danno un bicchiere vuoto che riempi al distributore automatico davanti alla cassa. Poi ti siedi dove vuoi ai tavoli, con l’ombrellone, mentre un complessino messicano, tre musicisti e una cantante, rallegrano facce con la bocca piena, che masticano. Siamo sempre stupiti dalla grassezza delle persone, e dalla quantità di cibo che ingurgitano, ma soprattutto da quanto bevono tra alcolico e analcolico.

Visto che non viene il sole, andiamo a down town per un po’ di shopping. Il Westfield Shoppingtown Horton Plaza è un centro commerciale con negozi d’abbigliamento e magazzini dei  marchi più popolari. Ma ha una struttura curiosa: è tagliato obliquamente da una vicolo pedonale su cui si affacciano le balconate dalle forme irregolari e colorate.

Little Italy è una piacevole scoperta. Ci arriviamo con l’idea di dare un’occhiata (per dovere, in ricordo del migrante italiano), ma poi finiamo col girarlo a piedi. Il quartiere è su una collina che degrada verso la baia. Le case sono basse, colorate o classiche con giardini, piccoli negozi e tanti ristoranti e bar italiani.

E’ quasi il tramonto e questa volta non vogliamo sentire “ecce bombo” come ieri sera quando abbiamo capito di essere su una spiaggia rivolta a sud. Torniamo sulla costa a nord di La Jolla, in un punto diverso dal mattino,  dove la costa è più alta e hai di fronte l’oceano aperto. Alle spalle invece si vedono boschi e in lontananza anche alcune mongolfiere. Sul bordo della scogliera c”è una specie di piattaforma di atterraggio per quelli che volano con il paracadute. Gli ultimi stanno rientrando e qualcuno piega il paracadute. Uno di questi “esseri volanti” indugia volando avanti e indietro lungo la parete, forse guarda anche lui il tramonto, forse non trova la corrente d’aria per atterrare. Lo perdo di vista osservando il tramonto: peccato però che il tuffo nell’oceano sia nascosto da nuvole basse e dense.

Non siamo gli unici che si fanno suggestionare: scorgiamo a rispettosa distanza altre persone in contemplazione. Il sole è ormai scomparso. Si sente il rumore dell’oceano, laggiù in basso, frangersi sulla spiaggia di sabbia. E poco lontano le voci e la musica di un gruppone dall’aria festosa (sembrano vetero-hippy), attrezzati con barbeque, torce, sedie e impianto stereo. Bambini che giocano, giovani che si appartano, anziani seduti e tutti che chiacchierano. Musica anni 60/70. Avrei voglia di infilarmi nel gruppo con una scusa qualunque, ma poi prevale la timidezza.

L’ultimo sguardo a San Diego è per il Balboa Park. Edifici sontuosi, giardini, cortili, musei, chiesa, fontane, orto botanico formano una sorta di  villaggio vicino alla Casa de Balboa. E’ mattina presto, tutto chiuso  e ci sono ancora poche persone. Un fotografo con assistenti sta fotografando un giovane cinese in abito firmato. Un gruppo silenziosissimo di praticanti il thai-chi, in un angolo appartato. E un gruppo di ragazzi con skateboard, che si esercitano sulla scalinata della fontana con pessimi risultati e molto rumore. Il posto, come la città di San Diego, meriterebbe una visita più approfondità, ma abbiamo voglia di partire.

Poi via, in direzione di Los Angeles. Il traffico sulla Hgw è sostenuto e spericolato, per chi non è abituato a quattro o cinque corsie. Pochi segnalano il cambio di corsia e comunque “stare a destra” non è una regola rispettata e forse neppure esiste in California. La distanza di sicurezza non ha un’unica misura, ma in compenso il traffico ha una velocità  costante e non troppo oltre il limite delle 50 miglia (80 km/h). Un paio di incidenti stradali, sempre sulla corsia a sinistra, creano dei lunghi rallentamenti.

La nostra meta è Laguna Beach. Di nuovo nell’Orange County. Usciamo dalla Hgw un po’ all’interno (è’ l’unica volta che paghiamo un pedaggio), in un splendido paesaggio di colline verdi e fiori. E’ tutto ordinato e pulito.
Precipitiamo a mare vicino al Montagne Resort. Sembra molto lussuoso, però non hanno più neppure una stanza. Il posto è enorme. Ci accoglie, invece, un hotel della Best Western, poco distante, con un grazioso giardinetto con la solita piscina a forma di fagiolo. Gli ombrelloni hanno la tipica forma tropicale  del fungo fatto con le foglie di banano, ma di plastica. D’altra parte erano di plastica anche i bicchieri del cerimonioso Resort in cui abbiamo pranzato.

Il cielo è terso e i colori sono splendenti. Faccio una breve passeggiata lungo la spiaggia e finalmente metto i piedi nel Pacifico. Poi, il tempo cambia repentinamente e, quando tramonta il sole, il vento è molto fresco. Il cielo è rimasto coperto di una spessa coltre di nubi fino al mattino. Di sera i turisti sciamano verso down town. Un autobus carrozzato come un vecchio tram di legno fa la spola lungo tutta la costa. Finto ma divertente, e soprattutto gli autisti sono gentili, abituati a bambini e terza età.

Cena da Romeo: cucina italiana di ottimo livello (siamo anche affamati). Niente a che fare con quello di San Diego. Tutto buonissimo, anche il tiramisu. C’è un festival, con una fiera dell’arte. La località infatti è piena di gallerie d’arte e d’artigianato, con lavori  bruttini, ma l’idea è bella.

L’Orange County meriterebbe una settimana di soggiorno, ma possiamo fare una sola tappa e Laguna Beach ha un nome abbastanza esotico per una località turistica. La costa è rocciosa ma non alta, con spiagge di sabbia. La baia è circondata da ville e alberghi schierati sulle colline che la circondano. Un’oasi di serenità turistica. Il verde è irrigato e curato da operosi giardinieri messicani. Angoli appartati e panoramici per fumatori. Sembra tutto finto, tranne il sole che quando picchia t’illumina veramente.

Partiamo da Laguna Beach con meta Santa Barbara, sempre sulla Pacific Hwy. Il primo tratto di strada è lo stesso dell’andata, si attraversa come all’andata la parte più noiosa di LA dove si concentrano le strurre portuali e industriali. La strada diventa più interessante man mano che ci si avvicina a Santa Monica.

 

Vorremmo pranzare lì, ma quando arriviamo la delusione è cocente. La spiaggia è piena di orribili turisti, troppi gabbiani e piccioni. Vicino all’acqua tira un vento molto freddo. E lontano dall’acqua non c’è un posto all’ombra.

Ripartiamo e ci fermiamo a Malibu, a vedere i surfisti. La spiaggia è più bella. Ci sono tante piccole case lungo l’oceano. Alle spalle piccole montagne molto brulle, probabilmente sempre spazzate dal vento e per il primo tratto disabitate. Poi lo scenario cambia: le case si fanno più lussuose e quelle più lussuose sono sulla collina.

Dopo Malibu prendo la guida. Bello! Inizia un tratto di strada più stretta e a curve, dove la spiaggia  si fa prima di sassi e poi di roccia. Nel tratto successivo di strada tutto torna piatto e il traffico si fa intenso mentre si procede verso S. Barbara. L’azienda del turismo ci manda a un resort sul lungo mare (Western Beach Inn).

Santa Barbara è proprio bella. Quando c’è il sole ha una luce limpidissima e un cielo azzurro da oceano. Anche qui cascate di fiori colorati e piante verdi e fiorite, rigogliosissime. Davanti alla nostra stanza ci sono aiole di begonie di tutte le gradazioni di rosa, forse come non le avevo mai viste. I giardini sono curatissmi e la gente è ospitale. Unico difetto: la baia è rivolta a sud e il sole non tramonta nell’oceano, ma dietro alle colline.

 

Usciamo tardi per la cena e scopriamo che qui chiude tutto abbastanza presto. Alle 21.30 alcuni ristoranti non ci accettano più. Chi ci accoglie? Un grazioso ristorante italiano, Bucatini. Anche se in chiusura ci offre uno splendido piatto di maccheroni e un buon dolce.

Andiamo a dormire contenti dopo aver fatto un giro nella down-town. La strada principale di S. Barbara è piena di negozi. C’è un locale aperto, il Bricks, che fa musica dal vivo e  sembra più simpatico di quello vicino, il James Joice.

Questo posto ci piace e decidiamo di fermarci un altro giorno. Facciamo colazione e ce la prendiamo con calma. Naturalmente il cielo è grigio. Ormai ho capito che fino a mezzogiorno il sole non si vede. Facciamo un giro lungo la strada panoramica verso nord, costeggiando ville nascoste tra il verde e sparse anche sulle colline.

Pranzo da Sambos, all’esterno,di fronte alla spiaggia e al cielo dell’oceano. Il sole è caldo e la cucina americana è buona, non troppo pasticciata.

Nella via principale che risale dall’oceano, c’è un mercatino degli agricoltori di zona: frutta, verdura e fiori bellissimi. Facciamo acquisti per il pic-nic di domani.  Concludiamo la spesa in un supermercato, sempre nella zona commerciale, e curiosiamo tra gli scaffali per sapere cosa finisce nei frigoriferi americani.

Cena al ristorante Palazzio. Deludente. Il locale è un esempio di kitsch autentico. Orribile l’affresco del giudizio universale sul soffitto. La serata è fresca ma molto bella. Mi dispiace lasciare questo posto e soprattutto pensare che non potrò tornarci facilmente.